Monaco, 22 luglio 2016. Questa data dovrebbe essere ricordata come emblematica per la superficialità con cui si continua ad affrontare il bullismo.
Un diciottenne uccide a colpi di pistola (procuratasi chissà come) 9 suoi compagni/amici perché colpevoli, secondo lui, di averlo bullizzato. Programma tutto, per un anno.
Li attira in un fast food di un centro commerciale e fa in modo che da quel locale, nessuno di loro esca più, neanche lui: mi libero dei vessatori e libero me stesso dalla responsabilità di averli eliminati.
Sceglie perfino la data, emulo di un folle xenofobo che nello stesso giorno di 5 anni prima ha compiuto uno dei massacri peggiori compiuti da un solo uomo che si ricordi nella storia del paese, uccidendo 77 persone. Una vittima che si trasforma in carnefice, perché non vede altra via di uscita dall’incubo in cui si trova; solo, così solo da avere la capacità non solo di uccidere, ma anche di uccidersi dopo aver portato a compimento il suo progetto.
Tutti vittime dell’indifferenza di chi avrebbe dovuto vigilare, sostenere, consigliare e contenere; ma il problema fondamentale per i media è capire come abbia potuto procurarsi un’arma un ragazzo di 18 anni e non tanto il fatto che abbia sentito il bisogno di procurarsela e, peggio di tutto, usarla.
L’arma in sé non ha alcuna responsabilità: non ha una coscienza, una volontà mentre il fatto che un ragazzo di 18 anni abbia invece sviluppato la capacità di desiderarla, procurarsela e usarla, questo dovrebbe essere al centro dell’attenzione di una cultura che davvero si possa dire civile.
In fondo quello che questo ragazzo ha compiuto con una pistola avrebbe potuto compierlo con un coltello, una mazza da baseball, una bottiglia di vetro spaccata o un rasoio. La scelta della pistola è una questione di maggiore effetto catartico, probabilmente legato ai videogame e al bombardamento mediatico di violenza compiuto da televisione e telegiornali: esplode, rimbomba nel vuoto e scarica più rabbia in quello scoppio di qualunque arma bianca rendendo la vittima distante, non più una persona, ma un bersaglio.
Il soffermarsi sul problema dell’arma e non sulle cause dell’uso di quell’arma dimostra nuovamente come la questione del bullismo sia sottovalutata, al punto che viene quasi da pensare che sia perfino voluta. Uso della violenza per sottrarsi alla violenza subita.
Davanti a tutto questo l’educazione non può che dichiararsi sconfitta, non in tutto, ma in questo frangente, si; una sconfitta amara, sanguinosa e inaccettabile. Una sconfitta che ogni educatore dovrebbe tatuarsi sulla pelle, perché ognuno di noi è stato un po’ sconfitto il 22 luglio 2016, di nuovo, perché purtroppo questo non è l’unico fatto di questo genere, ma solo l’ultimo di una lunga lista.
Questo ragazzo, Ali Sonboly, dicono avesse problemi psichiatrici per cui era anche sotto terapia: per mia esperienza posso dire che tutti gli adolescenti sarebbero da psichiatria; l’adolescenza stessa è una temporanea inabilità mentale. Tutto è il contrario di tutto e tutto è più forte di tutto. Non è forse questa l’adolescenza?
Il problema non sono gli adolescenti però, ma la psichiatria in sé che vede in ogni anomalia comportamentale non l’espressione di un disagio, ma una malattia di sedare. Sedazione che in questo caso non ha dato i risultati sperati, se di sedare vi fosse stato il bisogno. E se vogliamo parlare di malattia psichiatrica vorrei stabilire chi tra il bullo e bullizzato sia «sano».
Perché se vogliamo considerare come sani i bulli, mentre adesso il killer era malato, allora dobbiamo ammettere che il vero malato è la nostra società, che è incapace di vedere quanto i nostri giovani siano assuefatti alla violenza e al suo deprecabile spettacolo.
In questo episodio i bulli sono diventati vittime della loro vittima e divengono visibili entrambi solo perché adesso si è giunti a un punto di non ritorno. Ma di nuovo la vittima senza più speranze dal suo punto di vista è il cattivo, mentre il bullo diviene il giusto che ingiustamente viene colpito.
I media non si soffermano pochissimo, giusto un accenno, su questo problema, dipingendo l’intero scenario bullistico, che è causa di quanto accaduto, come marginale perché tanto il killer era psichiatrico: un ragazzo con problemi di depressione. E sette anni di bullismo subìto (questo è il tempo dichiarato proprio dal ragazzo prima di iniziare a sparare) credo che possano essere causa di depressione per chiunque.
Negli immediati momenti della “vendetta” si è pensato subito a un nuovo attacco terroristico. E il terrorismo non è forse il risultato di atti di bullismo di Stati contro altri Stati dietro la scusa di esportare civiltà e democrazia? La risposta principe di ogni bullo alla domanda del perché lo fai: per il suo bene!
Davanti a un sistema che perpetra continui atti di bullismo diviene normale il bullismo stesso, ma gli ambiti educativi sembrano non essere particolarmente preoccupati di tutto quello che potrebbe conseguire.
Ancora il problema non viene affrontato con la giusta gravità che impone un’azione preventiva, poiché la cura non sarà mai abbastanza efficace. Ancora si fanno troppe parole (quando se ne fanno) e l’azione educativa continua ad essere impedita, assente o poco efficace. Pretendiamo di proteggere i giovani, ma probabilmente non li stiamo proteggendo dalle cose giuste o forse continuiamo a proteggere noi stessi, negando quei problemi contro i quali occorrerebbe agire con nuovi strumenti che porrebbero in discussione l’idea dell’educazione stessa che in molti si continua a portare avanti.
Occorre che gli educatori abbiano ben presente che se queste giovani generazioni saranno perse (cosa a cui già stiamo assistendo) equivarrà ad un cataclisma pari a un asteroide che colpendo la Terra porti l’estinzione di almeno 6 generazioni di esseri umani.
Davanti a tutto questo dobbiamo iniziare a prendere delle decisioni che vadano contro a un sistema che non desidera che i giovani esistano, ma che semplicemente vegetino fino a quando una tempesta di vento in un fast food li sradichi senza pietà.
Quella pietà che non si insegna più.
Giovanni R. Lo Giudice
Educatore
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