In una recente rubrica sul Corriere della Sera, il docente e scrittore Alessandro D’Avenia ha riflettuto sulla trasformazione del nostro approccio all’informazione dopo l’avvento di Google e del digitale. Secondo lui, la nostra memoria si sta riempiendo di notizie inutili, alimentando una sorta di “infodemia” e generando una sovrabbondanza di informazioni.
Il punto di partenza di questa riflessione è un fatto di cronaca recente: un gruppo di bambini, unici superstiti di un incidente aereo, è riuscito a sopravvivere per 40 giorni nella giungla grazie alle competenze pratiche insegnate da Lesly, la più grande del gruppo, che le aveva apprese dai suoi nonni indigeni.
Secondo l’autore, queste competenze sono molto diverse dalle nostre, che tendono a dominare la natura invece di interagire con essa. Ad esempio, D’Avenia cita il nostro modo di scoprire il nome di un fiore: scattiamo una foto e lo cerchiamo su Google, ignorando le sue proprietà medicinali o nutritive.
Riflettendo sull’importanza di queste competenze per la sopravvivenza, emerge la domanda sul tipo di conoscenze pratiche che la scuola dovrebbe fornire agli studenti. È evidente come la dipendenza dalla tecnologia possa diventare un ostacolo in situazioni di emergenza, quando le connessioni digitali potrebbero non essere disponibili.
È pertanto suggerito che la scuola bilanci l’istruzione teorica con una formazione pratica. Un esempio citato è quello di un’esperienza di insegnamento a Roma, in cui gli studenti hanno creato un orto con tutte le piante menzionate nell’Eneide di Virgilio, stabilendo un legame indimenticabile tra le loro mani, la letteratura e la natura.
Si esorta quindi a riscoprire un rapporto “corporeo” e non solo “mentale” con il mondo, in modo da attenuare la dipendenza dalla mediazione e dall’iperstimolazione digitale. In conclusione, si sottolinea l’importanza di coinvolgere i cinque sensi nelle attività quotidiane, come toccare la corteccia degli alberi, piantare basilico o gustare le more direttamente dal cespuglio. Si spera che queste esperienze possano fungere da rimedio contro la tendenza a negare la nostra corporeità.