Il sito di informazione del Partito Democratico “Democratica” ha pubblicato un commento, sotto forma di articolo, di Simona Malpezzi relativo al licenziamento della maestra che augurò la morte ai poliziotti durante un corteo antifascista. Quell’insegnante, che fu immediatamente ricevuto la sospensione, ha dichiarato di far ricorso.
Quelle le parole della Malpezzi:
“Sono e rimarrò per sempre la figlia di un maestro”. Qualche mese fa iniziavo con queste parole un post con cui commentavo la vicenda della maestra sospesa per aver aver augurato – nel corso di un corteo – la morte agli esponenti delle forze di polizia. Oggi quella maestra è stata licenziata. Umanamente mi dispiace. Parliamo di una donna che ha perso il lavoro e che sarà costretta a cambiare tutta la sua vita. Ma considero corretta la decisione dell’ufficio scolastico regionale. Cerco di spiegare il perché. Qualche mese fa Mattia Feltri, nel suo Buongiorno, pubblicava la lettera di Mario Pogliotti, giornalista Rai, al suo vecchio maestro. Siamo nell’anno scolastico 1937/38. “Ogni sabato pomeriggio un volenteroso centurione si sforzava di farmi dimenticare – nella facile retorica del “me ne frego”, dei moschetti G1 e dei passi romani – quello che il signor maestro si era sforzato di inculcarci nel corso della faticosa settimana. Ma lei, il lunedì successivo, era là, indefettibile, alla cattedra, fra la lavagna e il planisfero, pronto a ricominciare da capo a insegnarci a essere galantuomini e non marmaglia, a usare il cervello prima che il fucile”. Il signor maestro, appunto che raccontava ai suoi alunni che esisteva un’alternativa al “me ne frego”. E che anche oggi svolge il compito delicato e difficile di educare al senso critico e alle emozioni, come mi diceva mio padre. Perché così si diventa persone perbene e non “marmaglia”. E per fare questo si parte dall’esempio, dalla coerenza e dal rispetto. Oggi, più che mai, questo è un messaggio attuale e indispensabile. Avere cura dell’altro chiunque esso sia, avere a cuore, insegnare i sentimenti. Ma anche accogliere il ragazzo, qualunque sia la sua storia e le sue difficoltà, aiutandolo a stare al mondo. Era questa l’idea da cui nacque l’esperienza di Barbiana la cui finalità era proprio quella di promuovere un’educazione fondata sulla rispetto di ogni diversità, sulla cura, sull’empatia e l’amore perché l’istruzione era considerato lo strumento per far crescere la coscienza civile di un Paese. Il mezzo per far diventare i ragazzi, le donne e gli uomini di domani. Persone che sanno accogliere l’altro e averne cura e rispetto. Compito del docente è far germogliare il seme, educare (ex-ducere) e cioè tirare fuori. Ecco perché ho condannato “senza se e senza ma” la manifestazione di odio violento che quell’insegnante ha inscenato a Torino e, oggi, considero corretta la scelta di licenziarla. La rabbia, la volgarità, l’aggressività che ha mostrato le impediscono di fare ciò per cui è stata chiamata: insegnare ai bambini come si diventa cittadini consapevoli, persone per bene e non marmaglia. Nel linguaggio c’è la sostanza e se un uomo o una donna sono educatori lo sono anche fuori dalle loro classi e dai confini disegnati dai muri di una scuola (e lo si è anche quando si entra nei social: un educatore deve essere tale anche lì). Per questo quella donna non può fare la maestra. Si è insegnanti sempre. E per sempre sarò la figlia di un maestro che insegnava a non essere marmaglia. A usare la testa e non il fucile. A dire, anche se oggi sembra la cosa più impopolare, che amare l’altro e rispettarlo chiunque esso sia, è l’unica strada possibile. Oggi, più che mai, rivendico quell’insegnamento.