“Devo pur sopportare qualche bruco se voglio conoscere le farfalle. Sembra che siano così belle”. Forse è la frase che preferisco dell’onnipresente, pluricitato (fin troppo!) “Piccolo Principe”. E’ anche una delle meno note di questo testo, ma forse la più adattabile all’ambito scolastico. Perché i ragazzi a scuola son quasi tutti un po’ “bruchi”, se non proprio bozzoli, e noi assistiamo al loro primo maldestro dispiegamento di ali. Se siamo fortunati.
E allora perché noi insegnanti ci lamentiamo sempre, visto che il nostro compito è così nobile? Perché alcuni bozzoli non vogliono saperne di schiudersi e alcuni bruchi ci stanno bene a terra, anzi, ci si crogiolano nel terriccio. Di volare neanche a parlarne, per il momento. E io che ci faccio ogni mattina con i miei bruchi di seconda e terza media (scusate: secondaria di primo grado)?
Guardo Giorgio: oggi ha sonno e nemmeno disegna; perché Giorgio disegna. Sempre. E lo fa benissimo, meglio di ogni altra cosa. Appena messo piede nella scuola mi ha disegnato un fantastico teschio di Amleto. Stavamo studiando il verbo TO BE e io avevo citato la famosa battuta di uno dei dialoghi più famosi della storia del teatro, e via, ecco dopo pochi minuti un bel teschio a matita, in stupende sfumature di grigio. Giorgio probabilmente farà il grafico. O il pittore. O il disegnatore.
Ma chi glielo dice che adesso, nella mia ora, questo suo talento non conta molto, e che dovrà ascoltarmi mentre spiego le regole grammaticali di una lingua ostile e poco trasparente?
Invece Mirko che fa oggi? Costruisce origami di animali e piccoli oggetti con la carta. Bellissimi. Mirko è fantastico con la manualità fine e ti guarda con occhi teneri e imploranti quando vorresti interrogarlo. A volte lasci perdere, perché gli occhi di Mirko parlano da soli. E dicono: “No prof, no, oggi no. Mi lasci stare”. E tu lo lasci stare Mirko, perché ha quell’aria da bimbo indifeso. E in effetti nessuno lo difende a casa, se prende brutti voti. Anzi. Hai paura che lo sgridino anche troppo, a casa sua… Perché Mirko ha problemi con le lettere e lo sa. Le confonde, se le dimentica, gli si ribellano. E le lettere dell’inglese come si posizionano in una parola? A caso?
E il bruco-alfa di 3E? Arrogante, viziato, belloccio. Piace alle ragazze e risponde male ai prof. Cosa gli piace, a parte le ragazze e scorrazzare nei corridoi mostrando le sue felpe firmate? Cosa può fare in futuro se non si impegna? Il venditore d’auto o il tronista televisivo? Quanti pregiudizi ho anch’io, accidenti! Devo trattenermi, penso, mentre lo vedo sfilare a mento alto nel corridoio, verso il bagno (percorso che farà come minimo 10 volte al giorno).
Lo psicologo, sociologo, opinionista ecc. ecc. P. Crepet, in un articolo che sta girando ultimamente in rete, dice che li stiamo psicologizzando troppo questi ragazzi, catalogando. Ed è vero, in qualche modo: li stiamo nominando con sigle (DSA, BES, DVA, ADHD, DOP), manco fossero etichette su cassetti. Avessi un ordine simile a casa mia. Ma non siamo noi insegnanti, sono gli psicologi e i neuropsichiatri che lo fanno, il più delle volte interpellati da genitori protettivi (talvolta in modo sano, ma non sempre), che vogliono aiutare i loro figli se ne percepiscono le difficoltà, o anche solo per evitarne lo stress scolastico. Etichette che non rendono conto della loro complessità, senza dubbio. Del loro essere comunque umani in formazione.
Amo il mio lavoro e mi affeziono ai bruchi, aspettando la loro trasformazione. Perché a me è successo proprio questo: qualcuno, (in particolare 2 o 3 insegnanti delle medie, intelligenti e presenti), mi ha capita, e ha visto in me, bruco coi capelli ricci e ribelli, insicuro ma socievole, la farfalla plurilingue. Brave le mie prof, con me almeno. Con gli altri avranno saputo esserlo altrettanto?
Non sempre è facile capirli, come non è facile per loro scegliere. Perché sono piccoli per farlo e non tutti, tra insegnanti e genitori, riescono a vedere in loro un’ipotesi di futuro. Le classi bozzolo li concentrano in uno spazio limitato e noi insegnanti a volte facciamo fatica a vederne i contorni e a intravederne probabili percorsi di volo. Proponiamo (scusate: “somministriamo”, manco fossero farmaci) test attitudinali, presentiamo scuole dell’ordine successivo, facciamo entrare nelle nostre classi esperti esterni. L’ultima volta i “maestri del lavoro” hanno usato nelle classi terze, per un percorso di orientamento, un gioco-test pensato per i manager. Non volevo crederci: infatti ho chiesto se fosse vero almeno tre volte. Coraggiosi, non c’è che dire. Bravi loro a svolgerlo con criterio e serietà. Oppure è strano che i manager utilizzino ancora attività da eterni adolescenti in cerca di collocazione sociale? Forse tutti lo siamo ancora, a modo nostro, in una continua società “liquida” dove tutto, lavoro, relazioni e amori sono fluidi e instabili, mutevoli nel tempo e in continua evoluzione (per citare il sociologo Zygmunt Bauman).
Come capire i talenti nascosti e le prospettive future di ragazzi che forse faranno lavori che adesso nemmeno esistono? Chi avrebbe immaginato 15 anni fa i lavori di adesso, come i blogger, gli youtuber e i social media manager? Cosa ne sappiamo noi, se alcuni insegnanti (e adulti in genere), considerano i social solo una perdita di tempo, non capendo che sono il presente e l’immediato futuro della comunicazione? Alcuni di noi si adattano; aprono pagine Facebook o Instagram per sbirciare i figli, per vedere se non esagerano con le “pubblicazioni sociali”, magari mettendo tutto in piazza, comprese la vacanza di famiglia e la casa tutta, mentre ci girano in mutande, scattandosi selfie selvaggi.
Ci entriamo di petto noi adulti nei social, scettici ma decisi, ma poi ci si immergiamo con rediviva innocenza, condividendo foto di gambe in spiaggia, torte creative e gattini a profusione. E loro, gli adolescenti inquieti, se ne vanno, attratti da nuovi social, da nuove trappole digitali. La scuola arranca, li segue a fatica.
Psicologi e neuropsichiatri, interpellati dalle famiglie, il più delle volte pontificano, o classificano in sigle e diagnosi, appunto. A volte sicure e definite, altre fumose perché borderline, e non definibili con certezza. Alcuni collaborano, per fortuna, e ne ho dei bellissimi esempi nella scuola in cui lavoro ora e in quella in cui ho lavorato fino allo scorso anno. Per fortuna davvero, perché di questo abbiamo bisogno, di un lavoro di equipe per capirli ed aiutarli, questi ragazzi. Tutti insieme, non come parti che si fronteggiano scaricandosi vicendevolmente le colpe.
La scuola comunque ci prova. Sempre. Sappiatelo. Perché dopo 18 anni in questo ambiente ho capito che tutti noi ci proviamo, anche quelli che sembrano più demotivati e tristi. Perché in realtà basta un biglietto gentile di un alunno qualsiasi per illuminarci, o uno di loro che ti confida un problema personale e tu te lo porti a casa, il problema. Grata, in un certo modo, perché nel bisogno ha pensato a te. E tu cerchi di risolverglielo o almeno alleggerirlo il suo problema, perché tu lo sai che sei lì per loro. E anche loro lo sanno, anche quando ti si ribellano o ti urlano dietro di tutto, solo per attirare l’attenzione e sentirsi presenti, ascoltati, sentiti, vissuti, aiutati ad uscire dal bozzolo e ad alzarsi in volo.
E. V. (insegnante di inglese in una scuola secondaria di primo grado, in una delle province più ricche e in teoria meno problematiche del nord)
P.S.: i nomi degli alunni sono fittizi, anche se le situazioni sono ispirate a casi reali.