Il problema della dislessia di cui negli ultimi anni si parla ampiamente e ad ogni livello, non può certamente risolversi con le modalità in uso.
Il fenomeno sta divenendo un evento quasi mondano a tutto discapito dell’efficacia degli interventi, soprattutto nella scuola. E né l’applicazione di protocolli o software standard può essere la soluzione. Il suggerimento presente anche nelle direttive ministeriali degli strumenti compensativi e/o dispensativi, in realtà dispensa solo i docenti dal tentativo di ricerca-azione che in educazione dovrebbe essere uno strumento privilegiato.
Propongo, a questo punto, un breve excursus storico sulle modalità con le quali è stata affrontata la problematica.
In un primo momento si è cercato di definire che cosa è la dislessia; si sono messi a punto strumenti per rilevarla ed rivelarla; si è lavorato sull’incidenza del problema nella scuola; si sono calcolate le percentuali; sono stati individuati possibili indicatori predittivi.
Ne sono seguite campagne a tappeto che in certi casi hanno avuto esiti paradossali, poiché molti “falsi positivi”, segnalati da insegnanti eccessivamente preoccupati ed allarmati dal problema che non conoscevano bene, hanno visto mortificate da strumenti compensativi e dispensativi la possibilità di imparare a leggere.
Sul trattamento della sindrome, la quale secondo alcuni autori è una “via di non ritorno”, non credo siano stati individuati esattamente le capacità-problema e le potenzialità-leva.
Ogni bambino dislessico, così come ogni altro bambino, presenta delle caratteristiche del tutto irripetibili e solo un’attenta analisi delle zone-ombra e zone -luce potrebbe far individuare una leva sulla quale agire per illuminare al meglio i suoi possibili paesaggi cognitivi.
Nella mia vita professionale ho incontrato molti piccoli alunni e con ognuno non ho potuto ripetere esercizi già pronti; c’erano sempre piccole variazioni necessarie anche nel caso della motivazione da attivare per indurli alla lettura.
A questo proposito bisogna sapere che a causa della fatica del leggere la motivazione può mancare del tutto. Molti bambini mi hanno chiesto o mi chiedono ancora: “Ma perché devo leggere?” e a volte le risposte da dare non sono abbastanza convincenti.
Leggere ad alcuni riesce naturalmente e senza sforzo. Altri devono farlo con fatica. Questa fatica dovrebbe essere indagata attentamente perché la sua qualità ha delle variazioni da bambino a bambino. Ogni volta che ne ho uno di fronte, si apre un universo le cui costellazioni m’inducono a considerarlo irripetibile e assolutamente da scoprire. Partita dal pregiudizio diffuso che alla base del problema ci sia, assolutamente, il disturbo linguistico, ho verificato che bambini con tali difficoltà hanno avviato con successo la lettura a differenza di altri che pur avendo una loquela fluida hanno tardato ad acquisirne le tecniche.
Le difficoltà di scorrimento oculare da sinistra verso destra, a volte non adeguatamente accertate, sono fonte di lentezza, di inversioni statiche cinetiche e di scarsa comprensione dovuta alla fatica della decodifica. Le difficoltà visuo-spaziali nelle componenti riferite alla C.V.M, alle R.S, alle P.S; alla F.S, bloccano la normale acquisizione delle diverse lettere. Per quanto attiene in particolare alla competenza F-S se non è adeguata crea problemi di “affollamento” di fronte a pagine la cui misura di interlinea sia ridotta.
Bambini con personalità ben definite di fronte all’insuccesso strutturano atteggiamenti nevrotici di “evasione dal compito” oppure di forte oppositività al compito.
Le prove M.T. rilevano la lentezza nella lettura e la comprensione inadeguata, ma non ne indicano le possibili motivazioni, le quali potrebbero essere di natura estremamente differente da bambino a bambino.
Arriviamo alla scuola ed alla fissità delle sue metodologie, anche quando esse siano messe in campo. Una metodologia puramente fonologica mette in gioco la funzione percettivo-globale dell’acquisizione delle parole e delle frasi, creando “fusioni illegali” tra le sillabe, le parole, le frasi.
Un approccio solo lessicale, saltando la scansione sillabica, predispone i bambini ad ”inventare”. Non sempre si tiene conto che una giusta gradualità è utile nel rispetto anche,e non solo, del bagaglio lessicale in via di costruzione nelle prime fasi evolutive. Una parola sconosciuta diventa un logotoma anche per gli adulti.
Ricordiamo, sempre a proposito della gradualità, la lezione di Uta Frith, la quale prevede l’evoluzione della lettoscrittura in una sequenza di quattro stadi: logografico, alfabetico, ortografico, lessicale.
Secondo l’autrice le parole si codificano secondo la seguente legge: CVCV; CVCVCV; CVCVV; CVVCV; CVCCV; CVCCVC; CCVCV; CVCCVCV; CCCVCV …
Queste sono solo alcune problematiche emergenti nelle difficoltà di lettura, che non è detto che sfocino necessariamente nella dislessia. Se si interviene bene prima della fine della seconda classe della primaria, può darsi che per qualcuno rientrino.
Adesso una domanda finale:
Si può mai credere che corsi di formazione di tre, quattro giorni possano contribuire alla comprensione e alla conseguente risoluzione del problema?
Rosaria Troiso, Pedagogista – Logopedista