Alle elementari avevo come maestra una specie di Signorina Rottermeier: autoritaria, arcigna, zitella, la bacchetta sempre in mano, i capelli grigi raccolti in una crocchia, gli occhiali sulla punta del naso. Di lei, noi bambini appena arrivati, sapevamo solo che sarebbe andata in pensione dopo averci portato in quinta elementare. Abbiamo imparato a conoscerla subito.
Ne avevamo il terrore, nessuno in classe osava muoversi o anche solo parlare senza permesso, perché sapevamo che in caso di disobbedienza, la sua reazione sarebbe stata tremenda. A casa nessuno di noi raccontava ai genitori ciò che accadeva in classe, forse perché ci sentivamo in colpa o forse perché ci sembrava normale, chissà. Non ho mai capito invece, se le altre maestre sapessero qualcosa, certo è che le urla delle mia maestra si sentivano in tutta la scuola.
Io e un mio compagnetto però potevamo ritenerci “fortunati”, lui bravo in matematica, io in italiano, ogni tanto eravamo mandati in “in tour” nelle altre classi per dare dimostrazione alle altre maestre di quanto fossimo stati preparati bene.
Le punizioni della maestra erano all’ordine del giorno, c’era sempre qualcuno di noi che faceva qualcosa di sbagliato e le sue urla ci immobilizzavano subito tutti: nessuno riusciva più a finire un problema, a completare una frase di italiano, a fare le divisioni o a colorare un disegno.
Dev’essere stato allora che mi sono resa conto che essere severi non equivaleva ad insegnare, che sbraitare non serviva a far capire. Anzi, vedevo i miei compagni di classe già in difficoltà, affondare sempre di più ad ogni pesante rimprovero.
L’iter delle sue arrabbiature quotidiane era sempre lo stesso: urla dalla cattedra e insulti a due centimetri dalla faccia; bacchettata sul banco e poi sulle mani; capelli tirati con forza (soprattutto trecce e codine) e colpi con le nocche sulla testa del “somaro” di turno. Nel grande calderone dei “somari” rientravano inconsapevolmente bambini con ritardo cognitivo, con disagio socio-culturale, con dislessia, disgrafia e discalculia, o soltanto caratterialmente introversi.
A questi “ameni” episodi quotidiani si aggiungevano spesso vere e proprie punizioni estemporanee e creative, la cui durata poteva essere di una o due ore, ad esempio restare in ginocchio su un sacco di iuta pieno di pigne, tenere le braccia alzate, mettersi le le orecchie d’asino di carta o semplicemente finire dietro la lavagna. C’era poi una bambina con un evidente ritardo cognitivo, “colpevole” di non capire mai, contro la quale la maestra si accaniva: aveva gli occhiali molto spessi e una benda sull’occhio, nonostante ciò la maestra le prendeva la testa afferrandola per i radi capelli biondi e le faceva sbattere ripetutamente la fronte alla lavagna. Ovviamente, a parte la fronte arrossata, non otteneva il minimo risultato didattico.
In realtà non era una donna “cattiva” di per sé, probabilmente quello era solo l’unico modo di fare scuola che conosceva, con i metodi coercitivi di altri tempi che aveva imparato da maestri come lei, quelli con cui era cresciuta nel ventennio e che riteneva necessari per recuperare gli alunni “somari”.
Eppure, si sa come sono fatti i bambini, …io le volevo bene. Riuscivo a trovare in lei sprazzi di umanità e di bontà. Ricordo distintamente di essere riuscita anche a farla sorridere una volta.