“Maestra, ma a te piace insegnare ai bimbi?” oppure “Ma tu perché sei voluta diventare maestra?”.
Chi di voi non si è sentito porre almeno una volta durante la sua carriera di insegnante questa domanda?
Chissà quali saranno state le vostre risposte, ma sono sicura che una di certo ci avrà accomunati: la passione.
Sì, perché cosa spingerebbe una persona, tra le tante professioni a disposizione a scegliere proprio l’insegnamento, se non la passione? Quale forza ci ha indirizzato verso questa strada, a discapito delle altre, se non la passione? Ecco, appunto, la passione, né più e né meno.
Oggi più che mai ci chiediamo cosa significa essere un insegnante e ci domandiamo se quel motivo che ci ha spinto a questa scelta è ancora vivo e se la strada percorsa è stata quella giusta.
Oggi essere un insegnante significa possedere le cosiddette competenze sociali: abilità organizzative; senso di responsabilità; capacità di lavorar in gruppo; capacità comunicative; flessibilità, ecc.
Certo, è importante possedere queste competenze sociali in combinazione con quelle specialistiche, metodologiche e di apprendimento. Ma per i nostri alunni è molto importante che gli insegnanti abbiano anche altre competenze:
- siano leali con tutti ad esempio, siano credibili (un insegnante non può artificialmente forgiare la propria credibilità, deve credere in ciò che dice, oltre a credere alle capacità dei propri alunni);
- siano coerenti, corretti, cordiali, motivati (siano in grado di motivare se stessi che i propri alunni);
- promuovano le qualità anziché condannare gli errori, accettandoli come parte naturale del processo di apprendimento.
Per quanto mi riguarda, ad esempio, diventare l’insegnante migliore che potessi essere è stato il mio obiettivo primario da sempre.
Ho cominciato ad insegnare all’età di 19 anni, subito dopo il diploma. Conosco bene l’impatto durevole che un buon insegnante può avere sui suoi alunni, io stessa l’ho sperimentato, ma è solo quando sono effettivamente diventata un’insegnante, che quel concetto così vago prima è diventato più definito, reale e concreto.
Se ripenso al mio passato di studentessa e ai professori che ho avuto, il mio pensiero va soprattutto a coloro i quali sono rimasti indelebili nella mia memoria per la passione con la quale hanno vissuto il loro lavoro, per il rispetto mostrato nei nostri confronti e per la loro comprensione.
Hanno studiato cose che hanno amato e li hanno appassionati e quello stesso amore, quello stesso entusiasmo lo hanno trasmesso a noi studenti, senza pretendere di modellarci secondo il proprio pensiero, lasciandoci liberi di crescere secondo le nostre inclinazioni, i nostri talenti.
Era da quella passione che veniva fuori un modo di insegnare dinamico, efficiente ed efficace, grazie al quale erano riusciti a stabilire un legame con noi, delle relazioni significative, in assenza delle quali non può esserci un apprendimento significativo.
A nostra volta noi li abbiamo percepiti come persone di cui fidarsi, persone interessate, delle guide positive a nostro fianco e non come semplici trasmettitori del loro sapere.
Credo che sia questo il motivo più importante che mi ha spinto a diventare insegnante: essere una guida positiva, un punto di riferimento per gli alunni che durante il mio cammino incrocerò, prima ancora che trasmettitrice di conoscenze o discipline.
Ricordo il giorno in cui questo desiderio diventò più nitido, più pulsante. Insieme alle mie compagne di classe ero andata al cinema a vedere il celeberrimo film: “L’attimo fuggente” con Robin Williams.
Credo che l’Attimo Fuggente abbia influenzato un po’ tutti coloro i quali, per indole, abbiano avuto nelle loro vene la passione dell’insegnamento. D’altronde, chi non avrebbe voluto assomigliare al mitico Professor John Keating?
Così carismatico, appassionato: “Capitano o mio Capitano”, dicevano i suoi studenti nell’ultima scena in cui lui lascia l’istituto dove insegna, perché le sue idee sono “fuori norma”; il professore che tutti avremmo voluto incontrare almeno una volta nella nostra vita da studenti.
E come avviene nel film, per la prima volta nella mia vita, sapevo cosa volevo fare! E per la prima volta, lo avrei fatto!
Così, non appena fui chiamata a sostenere un colloquio selettivo in una scuola privata, alla quale avevo fatto domanda di incarico tempo prima, non esitai un momento ad accettare la proposta, nonostante la retribuzione fosse alquanto misera e il punteggio assente.
Si sa come funziona in alcune scuole private, ma quel che contava per me era mettere in pratica l’esperienza e le conoscenze fino ad allora acquisite sui libri e le competenze dei tirocini formativi.
La scuola privata era una scuola di periferia, dove i genitori portavano i propri figli che, come si dice in gergo “non ne volevano manco a brodo” per i motivi più disparati (sociali, familiari, psicologici), quelli che oggi inseriamo nei progetti di supporto per gli alunni BES.
La mia non era una scuola cosiddetta “in”, c’erano bambini poco seguiti dalle famiglie, le quali attribuivano alla scuola un irrisorio valore educativo, d’altronde le loro priorità erano altre e l’istruzione dei propri figli non rientrava tra queste. Quell’anno mi fu assegnata una quarta.
Il primo giorno di lezione fu un incubo: la classe era tutto fuorché una classe, bambini indisciplinati che stavano costantemente a gambe all’aria sui banchi, urla, parolacce, volgarità, litigi vari. Tornai a casa traumatizzata, quasi sul punto di piangere.
Ipotizzai allora due soluzioni: scappare e non tornare più o ingoiare il rospo, rimboccarsi le maniche e partire con la costruzione di relazioni interpersonali efficaci. Feci un gran respiro e scelsi la seconda ipotesi.
Scappare non avrebbe portato a nulla, specialmente se mi ero prefissata di seguire questa strada. Nel giro di qualche mese riuscimmo a creare dei legami che ci portarono a condividere i due anni più belli della nostra vita: fu una crescita personale e professionale senza pari.
In quinta i bambini sostennero brillantemente gli esami di licenza elementare (a quel tempo c’erano ancora gli esami di licenza elementare). Ricominciai poi un nuovo ciclo. Rimasi altri cinque anni. Meravigliosi ricordi.
Quando il direttore dell’Istituto venne a mancare, la scuola venne chiusa. Per mia fortuna però l’anno successivo entrai di ruolo nella scuola primaria, a seguito del concorso a cui avevo partecipato anni prima.
Ormai insegno da quasi 25 anni e ogni anno è sempre una crescita professionale ma soprattutto umana. E’ vero, non esiste apprendimento significativo senza delle relazioni umane significative ed è quello che tengo sempre presente.
Un insegnante deve essere disponibile e vedere oltre quello che un alunno appare, deve creare dei legami, essere autorevole e guadagnarsi la fiducia dei propri alunni, cercare di aumentare l’autostima di quelli con più difficoltà e di quelli che non hanno nessuno alle spalle, perché l’apprendimento consiste soprattutto nella comprensione delle relazioni e perché nessun bambino è perduto se ha un insegnante che crede in lui.
Dai migliori insegnanti che hanno incrociato la mia strada prima di studentessa e successivamente di insegnante ho imparato tanto.
Dai migliori ho imparato come avrei voluto essere un giorno se fossi diventata insegnante e dai “meno bravi” ho imparato come non avrei voluto essere.
Di certo non avrei voluto essere come quelli che entravano in classe per riempirci la testa di “bla… bla… bla…” quanto più se ne riusciva a mettere in un’ora, d’altronde erano pagati per quello, poi scappavano via per ricominciare i medesimi “bla… bla… bla…” in un’altra classe.
Non avrei voluto essere come quegli insegnanti che punivano gli studenti costringendoli a stare in ginocchio con le braccia dietro la schiena (mi è capitato di assistere anche a questo, ahimè).
Essere insegnanti comporta una grossa responsabilità, come direbbe un grande supereroe, una enorme responsabilità e bisogna averne coscienza quando entriamo in una classe. I ragazzi hanno bisogno di guide.
E’ vero, è un compito che spetta ai genitori, questo è fuori dubbio perché l’educazione non può essere delegata solamente alla scuola, come sostiene Icami Tiba l’alunno è transitorio mentre il figlio è per sempre.
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Però è anche vero che gli alunni trascorrono a scuola metà delle loro giornate, quindi è giusto parlare di corresponsabilità educativa, riconoscere che l’educazione dei ragazzi non compete esclusivamente alla sede scolastica o a quella familiare, ma ad entrambe, in reciproco concorso di responsabilità ed impegni.
La scuola deve coadiuvare i genitori con l’apporto della propria specificità culturale e cognitiva, articolata secondo un percorso educativo, se non dovrà mai sostituirsi ad essi. I bambini, i ragazzi hanno bisogno di guide che li aiutino a creare le basi per realizzarsi come persone innanzitutto.
Purtroppo in questa fase di transizione negativa che la scuola sta vivendo, in questo tempo in cui la professione docente viene calunniata piuttosto che innalzata ad esempio, considerare e valutare solo le parti negative di questa professione e demoralizzarsi è facile e giustamente “normale”.
Ma quando contribuiamo ad aiutare i nostri alunni nella conoscenza di sé, quando trasmettiamo la nostra passione, quando li aiutiamo a comprendere quali sono i loro talenti e gli strumenti che li aiuteranno a realizzarsi nella vita, allora in quel caso siamo stati le “guide” di cui hanno bisogno e possiamo ritenerci più che soddisfatti.
Quando ho visto l’attimo fuggente ero già professore da diversi anni e non l’ho giudicato un film educativo. Un professore o maestro deve sì essere un appassionato della propria materia e spiegarla con entusiasmo,ma non deve mai influenzare i giovani oltre i limiti e mai intromettersi nei rapporti genitori figli. Deve aiutali a crescere e ad analizzare gli avvenimenti con logica ed una certa percentuale di disiteresse per affrontare gli ostacoli che ci sono sempre in qualsiasi momento – vorrei dire affrontare i problemi con il giusto algoritmo –