Quando leggiamo a chi ci è vicino quel che ci piace o ci emoziona, noi stiamo insegnando. Ma ne siamo felicemente inconsapevoli.
Non abbiamo fatto nessun corso di didattica e non sappiamo affatto che quel che stiamo facendo è insegnare, lo facciamo e basta, perché ci sembra naturale farlo, e l’unico impulso che seguiamo è il profondo desiderio che l’altro partecipi alla nostra gioia interiori, che la condivida.
Insegnare è entrare in classe e dire: sentite che bello questo brano.
Se poi quel tal brano non l’abbiamo trovato ieri per caso solo noi, e non piace solo a noi, ma è un brano famoso, noto a tutti, che viene da un tempo passato e che anche le generazioni precedenti hanno amato e, per questo amore, tramandato… allora ancora meglio, siamo doppiamente felici: perché condividiamo qualcosa che è già stato, prima di noi, condiviso e dunque appartiene a tutti.
In questo caso condividerlo vuol dire percepire il tempo che scorre e capire di far parte di un mondo molto più grande del nostro piccolo e limitato universo.
E allora dobbiamo semplicemente entrare in entrare in classe e leggere Dante. O un pezzo di Dickens, o una lettera di Kafka o due versi della Cvetaeva… Non importa cosa sia: qualsiasi cosa che faccia parte del nostro comune e universale patrimonio di studio (studium, poi, vuol dire passione); questa cosa dobbiamo portarla in classe e semplicemente leggerla.
Poi chiudere il libro, alzare gli occhi, guardare gli altri studenti e uscire. Basta, la lezione è finita.
Mi sembra di dire cose molto ovvie, ma oggi siamo in tempi in cui le cose molto molto ovvie hanno molto molto bisogno di essere dette.
Oggi l’accento è messo univocamente sul verbo “insegnare”: l’insegnante è uno che insegna, non è uno che ama una certa cosa e la insegna; l’insegnante deve quindi imparare prima di tutto, e dire esclusivamente, a insegnare. Così si dice in giro.
Così, in giro, impazzano convegni, studi, corsi e seminari sulla didattica dell’insegnamento.
Una volta ci si laureava e basta, quattro anni di università e poi automaticamente si andava a insegnare la materia in cui ci si era laureati. In verità, si andava a insegnare molto prima: già alla fine del liceo, al primo anno di università, si potevano fare le prime supplenze. E per insegnare alle elementari bastava il diploma.
Oggi ovviamente non è più così.
Cos’è cambiato? Che prima si pensava così: basta che uno sappia bene la sua materia e la saprà insegnare di sicuro; si pensava, cioè, che il conoscere bene e a fondo la propria materia fosse di per sé un’assicurazione del saperla insegnare: si dava allora, evidentemente, molto valore alla conoscenza.
Adesso invece si pensa: non importa che cosa uno conosce o non conosce, l’importante è che sappia insegnare. Ma insegnare che cosa? Nessuno pensa che il “che cosa” sia l’importante: la materia, l’argomento, l’oggetto… il complemento oggetto. Si insiste sul verbo, e non sul complemento oggetto.
Invece il complemento oggetto è importante. Direi che è l’unica cosa davvero importante: è stata la scelta della nostra vita, non mi sembra poco.
Penso che l’insegnamento dovrebbe essere una faccenda molto inconsapevole: bisognerebbe non accorgersi di stare insegnando. Se invece studio come insegnare, acquisto una consapevolezza troppo consapevole, che danneggerà ogni mia naturale inclinazione.
Inoltre divento per forza di cose pedante e forse anche presuntuoso, se, nel momento in cui sto insegnando, mi dico continuamente: io sto insegnando!
Bisognerebbe insegnare e basta, buttarsi e stare un po’ a vedere quel che succede. È come nello sport: se devi fare una curva sciando, non ti metti a ripassare la teoria della gravitazione universale di Newton… Anche perché, se lo facessi, cadresti.
Paola Mastrocola, insegnante
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Mi piace molto l’idea della didattica spontanea e mi rendo conto di usarla spesso (più o meno inconsapevolmente). Recentemente ho riscoperto una vecchia canzone americana, Fool me again, di Nicolette Larson. Mi era entrata in testa e non mi abbandonava, come se stesse lì a pretendere qualcosa da me che la cantavo e ricantavo a squarciagola in macchina. Dovevo condividere questa cosa con qualcuno. Allora, pensando al testo della canzone, è nata subito una lezione sul periodo ipotetico inglese che, insieme all’ ascolto e alla comprensione della canzone stessa, ho proposto alla mia quarta di liceo classico. E così una nuova generazione ha sentito una canzone bellissima e dimenticata, ha visto l’applicazione del periodo ipotetico di tipo 2 e io ho pure tirato dentro nel loop del suo ascolto compulsivo qualche mio studente che, in questo modo, ha affinato la sua pronuncia! 4 o 5 piccioni con una fava…con molta sorpresa da parte dei ragazzi e con tanta goduria da parte mia!
Una riflessione che tocca molti aspetti. Approfondirei un tema molto intimo e decisamente esistenzialista che è: perchè ho scelto di insegnare?
Da lì possono poi essere poste anche altre, certo non meno fondamentali, questioni di metodo.