La professione docente tra “ragioni” e “sentimenti” o “ri-sentimenti”? Su questa diatriba tra ragione e sentimento, tra scienza e filosofia, tra preparazione scientifica e preparazione umanistica, si è giocata per secoli, e forse millenni, il rapporto tra l’attività dell’insegnare, cioè del tracciare un segno nel processo formativo di varie generazioni di studenti, e la percezione che lo stesso ruolo ha avuto nella storia dell’educazione e della formazione.
Un ruolo che più di altri ha subito una trasformazione significativa nella percezione che la società gli ha attribuito di volta in volta ma che in qualche modo è sempre stato oggetto di attenzioni marcate da parte della collettività. I motivi sono di facile comprensione: ognuno di noi ha avuto dei maestri, dei docenti, delle guide più o meno significative che gli hanno indicato la strada, l’hanno appassionato, l’hanno spinto verso la coltivazione delle proprie inclinazioni, lo hanno ispirato e fatto diventare forse ciò che oggi è. La storia personale di ognuno è storia di incontri con i propri maestri, sia formali sia sostanziali.
Siamo passati dalla tenera e affascinante descrizione che Edmondo De Amicis in Cuore faceva della maestrina dalla penna rossa, che era l’Italia appena unificata alla fine dell’800 e il ruolo di quella giovane donna era orientato a definire un ruolo di grande umanità, di supporto a quella comunità che si costruiva, in cui quella figura si dimenava tra severità e cura, tra accoglienza e formalità. Un ruolo sostanziale per la costruzione di quel sistema d’istruzione nazionale che dalla Legge Casati del 1859 in poi andava gettando le basi per la realizzazione di un processo di alfabetizzazione di costruzione culturale dell’Italia unificata nel 1861.
Da una parte sembravano delinearsi le spinte neo-idealistiche di un’educazione legata a principi di carattere filosofico e dai valori ispirati ad un principio ordinatore (poi ripresi successivamente da Giovanni Gentile), dall’altra una visione positivista dell’istruzione con i grandi teorici che furono tra gli altri Villari, Angiulli, Gabelli e Ardigò che spingevano verso un’educazione laica e scientifica con le caratteristiche di un’educazione nazionale determinata da elementi di scientificità maggiore anche rispetto alla didattica.
Dunque le storie personali di tanti educatori sospese tra “libertà dello spirito” e “scientificità organica del processo educativo”, tra “autoritarismo, dogmatismo, intellettualismo” e “libertà, opportunità, autonomia, consapevolezza, esplorazione, creatività”, tra “attualismo” e “attivismo”, tra “cognitivismo” e “post-cognitivismo costruttivista”. Storie di vita che hanno determinato sia durante il ‘900 che durante il nostro tempo, l’idea che la professione docente fosse un insieme paradossale di scelte ambigue, non chiare, stantie, scarsamente aggiornate e quando ci ritrovavamo con un buon insegnante il merito era prevalentemente della sua sensibilità (per carità un po’ è anche così).
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Tuttavia in questa presunta ambiguità fatta di modifiche perpetue, passate attraverso riforme organiche, indicazioni ministeriali, decreti vari, passaggi normativi epocali sul tema dell’integrazione che diventa inclusione, la professione docente ha dovuto fare i conti con se stessa e aggiornarsi, formarsi, talvolta arrampicarsi seguendo corsi di formazione improbabili.
Il docente ha dovuto guardarsi spessissimo allo specchio per ritrovare le proprie ragioni, riscoprire la propria forza, nonostante il mondo fuori ancora oggi continui a ritenerlo sospeso tra l’idea di una professione scelta come ripiego, di un lavoro che a differenza di altri è tutelato, che vive di stipendi fissi e tre mesi di ferie all’anno, di “patti educativi” intesi come forme di intrattenimento gratuito per i propri figli e non come professionista della formazione a cui è affidato lo sviluppo complessivo della società.
La sostanza attuale in realtà, vede la professione docente sempre più impegnata e costretta ad essere guida in una società iper-complessa, fatta di cambiamenti anche normativi quotidiani, di gestione di emergenze sociali improvvise, fatta di tempi di organizzazione delle attività didattiche e di presenza negli organismi collegiali e funzionali sempre più lunghi e impegnativi. Ora anche l’esigenza di sopperire alle carenze scolastiche indotte dalla pandemia attraverso la DaD, risolvendo problemi tecnici improvvisi, inventandosi modalità alternative, superando i paradossi indotti da incompetenze istituzionali varie.
Il docente, l’anello centrale di raccordo tra la famiglia e le istituzioni, un’entità a metà tra l’espressione del sistema istituzionale e il garante delle esigenze di sviluppo soggettivo.
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Dovrebbe essere il professionista del processo formativo, consapevole del ruolo che svolge e delle scelte scientifiche che adotta, competente nei suoi ambiti disciplinari ma aperto alle indicazioni pedagogiche relative alle dinamiche apprenditive.
Dovrebbe realizzare contesti stimolanti partendo dalla conoscenza di quali dimensioni biologiche, culturali, sociali, tecnologiche, emotive, siano coinvolte nelle dinamiche dell’apprendimento.
Dovrebbe farsi sperimentatore di nuovi strumenti e nuove modalità di stimolazione del processo formativo conoscendo adeguatamente il ruolo dei processi empatici, riconoscendo la diversità come paradigma di una società più equa.
Non basta più solo il cuore; c’è bisogno di competenze mature, di capacità di apprendimento flessibile, di riprogrammazione formativa, di apertura all’alterità, di pensare alla diversità come elemento costitutivo della società stessa. Il docente come emancipatore che è in grado di trasformare la soggettività in formazione e mentre la cambia modifica le radici della società stessa. I docenti di domani, professionisti del processo educativo, costruttori di esperienze significative, donne e uomini a cui affidare la costruzione del nostro futuro.
Alessandro Ciasullo Ph.D.,
Ricercatore di Pedagogia Sperimentale
Università di Napoli Federico II
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