Essere docente di Storia è davvero un mestiere difficile. Chi lo fa da anni lo sa benissimo.
Al di là delle ricette didattiche che periodicamente vengono proposte ai docenti come rimedi sicuri, medicine miracolose, strategie vincenti, l’esperienza di chi sta in prima linea racconta di una quotidiana frustrazione per una fatica troppo spesso mal ripagata.
Perché?
Perché le ore a disposizione sono poche; perché non è facile far comprendere l’utilità e il senso della Storia (del resto il dibattito su questo tema rimane aperto); perché per un adolescente, così concentrato sul presente, lo studio del passato appare una vera e propria perdita di tempo; perché la Storia che si insegna è troppe volte molto lontana dalle storie di ognuno di noi. E perché troppi testi scolastici sono scritti per una scuola virtuale con studenti virtuali e mezzi virtuali (nel senso che non ci sono materialmente). Mentre sia le aule dove svolgiamo il nostro quotidiano lavoro sia gli studenti – quelli in carne e ossa come Antonio, Chen, Manuela, Kaled, Federico… – sono tutt’altra cosa.
Che cosa si può fare in meno di due ore a settimana?
La rete, la LIM, il pc, il videoproiettore sono strumenti ormai indispensabili, ma non sono la bacchetta magica, non bastano da soli per coinvolgere gli studenti nello studio della Storia. Lo scrittore francese Daniel Pennac afferma, nel suo celeberrimo Come un romanzo(clicca per leggerlo), che ci sono tre verbi che non sopportano l’imperativo:
“Amare, sognare e leggere.”
Io aggiungerei “studiare la Storia”.
Certo, possiamo obbligare gli studenti a prepararsi per una prova di verifica studiando più o meno a memoria Giulio Cesare, Napoleone o la rivoluzione francese, ma questo non significa studiare la Storia. Come passare ore, senza alcun piacere, sulle pagine di Moby Dick, di Anna Karenina o della Coscienza di Zeno non significa leggere.
Perché studiare la Storia vuol dire immaginare di “essere” Giulio Cesare, Napoleone o di partecipare alla presa della Bastiglia. Così come leggere vuol dire diventare il capitano Achab o Anna Karenina o Zeno Cosini.
Raccontare (con rigore) è il miglior modo di spiegare
Le persone non possono fare a meno di raccontare quello che accade loro, soprattutto quando si tratta di esperienze forti e coinvolgenti. Lo sanno bene gli anziani che hanno vissuto la terribile avventura della guerra, la sa altrettanto bene il ragazzino che segna un goal in una partitella sotto casa e non riesce a trattenere la gioia di descrivere agli amici la sua prodezza calcistica come se fosse stata una rete di Maradona o di Messi.
Insomma, non raccontare certe esperienze sarebbe quasi come non averle vissute.
Per questo, quando in classe abbiamo esordito dicendo «Ragazzi, oggi vi racconto una storia incredibile: quella dell’assassinio di Giulio Cesare» non abbiamo fatto fatica a suscitare l’interesse anche degli studenti più difficili. E siamo riusciti a condurli con noi, in quel 15 marzo del 44 a.C., per vedere, insieme a tutta la classe, cadere Cesare colpito da ventitré pugnalate ai piedi della statua di Pompeo Magno, il suo vecchio nemico.
Raccontare significa, quindi, esaltare gli elementi avventurosi delle vicende storiche per sedurre un pubblico naturalmente attratto dall’avventura.
Insegnare la Storia è davvero un mestiere difficile.
Tratto dalla prefazione di LA SPIGA – Avventura dell’Uomo (per Biennio Professionali e Tecnici)
(Clicca per leggere)