Alzi la mano chi non ha mai sentito su di sé la delusione di un brutto voto, la vergogna nel confronto con un compagno, un amico, un fratello che ha ottenuto risultati più alti, il pregiudizio degli adulti che ti considerano ‘meno di’ solo perché hai voti bassi a scuola e viceversa la sofferenza di cui nessuno si accorge perché nascosta dietro punteggi (decimali) a doppia cifra.
Troppo spesso il voto si carica di significati che non gli appartengono in origine e accentra su di sé molte energie e molte emozioni dei nostri studenti il cui unico obiettivo perciò sarà quello di raggiungere un certo punteggio anziché costruire competenze, stile e personalità.
Quello di studiare per il voto è un comportamento appreso e siamo noi, insegnanti e genitori, a determinarlo sin dai primi passi dei nostri ragazzi nel mondo della scuola.
Siamo così sicuri, infatti, che sia opportuno dare una misura dell’apprendimento già a 5-6 anni?
Io credo, sia ben chiaro, ad un sistema di valutazione espresso in forma numerica, ma non possiamo ritenere che un bambino capisca che il voto è solo una misura dei suoi elaborati e non uno strumento per etichettarlo.
Perciò non sarebbe più utile lasciare i ragazzi liberi di imparare, di iniziare ad acquisire criteri di apprendimento, di metabolizare procedure, poesie, di costruire il proprio metodo di studio senza la ghigliottina del numero o della lettera?
Perché la mia impressione è che ai nostri fanciulli sia richiesto un salto triplo dalla dimensione del gioco della materna a quella di studio ‘agonistico’ alle elementari.
Qualcuno dice: è opportuno che lo studente impari a ricevere un punteggio perché è così la vita, piena di graduatorie, gare, concorsi, chi vince e chi perde. Sarebbe giusto abituarsi quanto prima. Ma, pensandoci bene, che cosa si vuole? Qual è il nostro pensiero educativo? Insegnare l’ambizione o -come nel mio caso- la matematica?
Credo che prima di ogni cosa un insegnante di matematica voglia insegnare la matematica, uno di musica la musica e così via. Però la sovrastruttura prende il posto della struttura e crea un’aberrazione: si studia per il voto, perché il voto identifica l’individuo, e non perché è bello o utile o interessante quello che si sta studiando.
Con buona pace, aggiungerei, del senso profondo di ciò che si studia, del significato di una poesia, della consapevolezza di un processo storico o di un concetto filosofico, della padronanza di una tecnica artistica o della conoscenza profonda di uno strumento tecnologico. Nei miei ragazzi di scuola superiore vedo proprio la mancanza di questo spessore che proviene da anni di studio finalizzato al voto.
L’acquisizione del senso di ciò che si studia è un po’ come la digestione: viene bene se lenta. Abbiamo studenti bulimici, che si ingozzano di informazioni perché si preparano solo in vista del momento della verifica. E poi, quando il fatidico giorno arriva, eccoli rigurgitare tutto quanto sul foglio bianco: un bolo semi digerito e acido, che subito dopo essere stato espulso, non lascia traccia di sé, non si è trasformato in energia, non ha favorito nessun processo di costruzione cellulare.
L’argomento è finito: nulla di utile vi rimane. Figuriamoci dopo anni… che tracce sono rimaste? Non era forse stato coniato a tal proposito il termine di ‘analfabetismo funzionale’?
Ho deciso: per invertire la tendenza, dall’anno prossimo niente più voti, niente più punteggi a fianco degli esercizi, niente più… ok, scherzo, perché già vedo all’orizzonte la minaccia di uno stuolo di ricorsi.
E allora mi chiedo: cosa ha di così affascinante la valutazione in forma numerica? In fondo sono una insegnante di matematica: dovrei saperlo! Risposta: il voto, con la sua parvenza di oggettività, è uno dei massimi rappresentanti del grado di difensività della nostra pedagogia.
Insomma, se riduco tutto a numero e descrivo i criteri “oggettivi” mediante i quali ho estrapolato quel numero, sarò inattaccabile. Il giudizio analitico, che di gran lunga preferisco, è personale e non garantirebbe a priori quel senso di uniformità e oggettività.
Per di più il voto, comunque lo si esprima, ha il vantaggio della sintesi; i giudizi analitici invece richiedono una pausa di riflessione per essere costruiti ed espressi e si sa, gli insegnanti di oggi, oberati da moli di burocrazia (difensiva) da espletare, tutto questo tempo per fermarsi e andare nel profondo a cogliere i tratti distintivi dei loro studenti, spesso non ce l’hanno.
Però ricordiamoci che il voto sintetico è un’arma a doppio taglio e io me ne accorgo ogni volta che consegno una verifica: la prima cosa che i miei studenti fanno è andare a leggere il voto o punteggio e la seconda è chiedere ai compagni… “tu quanto hai preso?“. Come se la scuola fosse una gara dei 100 metri, a ostacoli, e come se fosse importante sapere come ci si è classificati.
Personalmente i migliori risultati li ho ottenuti quando ho fatto confronti solo con me.
Sono d’accordo con ciò che esprime in queste righe la prof.ssa A.Panarelli.Condivido il suo pensiero e credo che bisognerebbe trovare un modo per stimolare i ragazzi alla conoscenza affinché ognuno di essi cerchi di imparare tutto quello che può, insomma che faccia il massimo per sé stesso. Ho sempre pensato che gli alunni che hanno messo nello studio lo stesso impegno, non dovrebbero ottenere voti numerici diversi, ma questo mio pensiero difficilmente trova riscontro tra i colleghi.Spero che la scuola diventi uno strumento per imparare, e che lo studio non sia finalizzato al voto, ma nello stesso tempo, spero che la scuola si riempia di docenti in grado di motivare i propri studenti a tal punto da suscitare in loro l’interesse e l’amore per la propria materia.Concludo dicendo, che auguro alla prof.ssa Panarelli di riuscire a mettere in atto il suo pensiero affinché possa essere presa da esempio da colleghi obsoleti che da voto proprio non vogliono staccarsi, perché diciamocelo pure, chi non fa questo lavoro con amore e passione non ha interesse a cambiare il proprio modo di insegnare.
Delusione, vergogna e sofferenza non sonon di per sé un male. Lo sono se diventano ripetute e ingiustificate. Altrimenti sono solo un bene che fa crescere e maturare. La vita non è una eterna festa di compleanno.
Sono d’accordo con la professoressa, soprattutto nel caso delle elementari. Come può un bambino di 6,7,8 anni capire un numero come valutazione? Non sarebbe meglio dare valutazioni articolate che evidenzino punti di forza e punti di debolezza che possano aiutare a capire e a migliorare?
Quasi MAI ho preso BEI voti durante il mio corso di studi, ma inn seguito, nella vita e nella professione, mi son reso conto di ricordare, aver sotto mano, pronte all ‘ Uso molte di quelle cose imparate da bambino, ragazzo, giovanotto nel mio curriculum studiorum mentre altri che avevano avuto migliori riconoscimenti ( voti ) ricordavano piuttosto poco rispetto alle valutazioni ricevute.
Infatti qui non si tratta della delusione del brutto voto, ma del significato della valutazione fuori dal suo significato. Si tratta del ‘tu sei da 6’ che resta cucito addosso anche dopo molti anni.