Girando per le scuole di ogni ordine e grado, che mi chiamano per la formazione dei docenti o per avere consigli su come affrontare le sempre più complesse problematiche legate al disagio giovanile (bullismo, comportamenti oppositivo-provocatori, esplosioni di collera e violenza verso i compagni, i docenti, gli arredi della scuola etc ) che si manifestano già dalla scuola dell’infanzia, rilevo con sempre maggior frequenza un forte senso di disagio nei docenti, che si sentono spesso soli nell’affrontare situazioni che richiedono competenze che vanno ben oltre quelle disciplinari e metodologico-didattiche.
Ad un questionario da me predisposto, alla domanda: “Chi vorresti vicino quando ti trovi in una delle situazioni su elencate?”, tutti i docenti interpellati hanno risposto: “Il dirigente”.
Ma questi è in tutt’altre faccende affaccendato per poter far sentire la sua presenza al docente che si trova a lavorare in classi con alunni sempre più difficili e a relazionarsi a volte con genitori che, chiamati in causa, invece di collaborare lo aggrediscono.
C’è poi da considerare che i rapporti fra colleghi all’interno della scuola non sono sempre idilliaci. E la legge 107, introducendo il sistema della cosiddetta premialità, ha favorito l’accentuarsi di quel clima sociale negativo che generalmente connota i collegi docenti e i consigli di classe.
Anche i genitori chiedono un rapporto più diretto con chi dirige la scuola frequentata dai figli. E questi ultimi hanno a loro volta bisogno di essere ascoltati. Ma il dirigente è sempre più lontano dai loro problemi. Non ha tempo per cogliere il disagio, capirne le cause, confortare, trovare e suggerire soluzioni.
Ora per ogni aspetto della vita della scuola c’è una figura preposta: un collaboratore dello staff dirigenziale, un referente di progetto, un coordinatore di classe etc a cui rivolgersi. Sono questi che ascoltano, prendono appunti, riferiscono al dirigente e ne riportano la risposta, quando va bene. Ma non è la stessa cosa.
Passando di mano in mano il problema viene diluito, non potendo essere colto nella sua immediatezza e spesso drammaticità.
Quando, nel 2010, scrissi: “L’isola che non c’è? Alla ricerca della scuola ideale”, nelle conclusioni invitavo i colleghi ad una riflessione:
“Non è che abbiamo sbagliato noi presidi a voler diventare dirigenti manager di una scuola-azienda di vaste dimensioni (altrimenti non ci avrebbero concesso la dirigenza), che non ci lascia il tempo per seguire i nostri ragazzi con tutti i problemi che oggi hanno? (…) E i nostri insegnanti che debbono sentirci vicini, che debbono poter contare su di noi per intraprendere un cammino di innovazione per il quale non si sentono preparati? Nei nostri collegi dei docenti, con più di cento insegnanti ammassati in un salone, non è possibile comunicare efficacemente. Sappiamo che una comunicazione efficace si avvale anche dell’interazione oculare, della mimica facciale, della gestualità… ma tutto ciò è possibile solo con i docenti che occupano le prime file (…). E i genitori che hanno bisogno di essere ascoltati, rassicurati e che si innervosiscono quando non abbiamo il tempo per riceverli? E che vanno anche ridimensionati quando diventano invasivi e presuntuosi, assumendo atteggiamenti che infastidiscono gli insegnanti impedendo il realizzarsi di una comunità educante?
Non è che abbiamo sbagliato a chiedere un’autonomia che tale non è? Senza fondi sufficienti, infatti, non puoi essere autonomo nelle scelte e devi dipendere da sponsor e donatori che comunque le condizionano. E sei sempre più invischiato nei lacci degli adempimenti burocratici. Non hai tempo per pensare. E neanche per rileggere quei testi di Pedagogia da cui trarre insegnamenti preziosi per realizzare una scuola a misura di tutti e di ciascuno”.
Se vogliamo una scuola che sia veramente “buona”, dobbiamo pretendere che il dirigente scolastico sia messo nelle condizioni di svolgere al meglio la sua professione, e la prima di queste è avere un numero di alunni non superiore a 500.
Quando con i colleghi europei raccontavo di avere 1200 alunni, un centinaio di docenti più gli Ata, mi guardavano con espressione incredula. Ciascuno di loro dirigeva scuole con due-tre o al massimo quattrocento alunni, generalmente raccolti in un unico edificio. Chi aveva meno di quattrocento alunni poteva anche scegliere di fare qualche ora di lezione per far quadrare il bilancio gestito in piena autonomia con il consiglio di amministrazione della scuola.
Burocrazia ridotta all’osso e tempo a disposizione per seguire tutti gli aspetti della vita scolastica. Un po’ come avveniva ai tempi delle scomparse direzioni didattiche (didattiche, appunto. Non aziende). In questi anni la situazione dei dirigenti scolastici italiani è poi peggiorata: mega istituti anche con mille e cinquecento alunni in più plessi spesso distanti dalla sede centrale, a cui si aggiungono in numerosi casi le scuole in reggenza.
Altra condizione è liberare il dirigente da compiti che possono essere svolti dal dsga, che non a caso ha assunto il titolo di direttore dei servizi generali e amministrativi, come ad esempio la nomina di supplenti, la scelta dei fornitori, i contratti etc… Il dirigente dà l’indirizzo politico-pedagogico dell’istituto, il direttore opera e rende conto del suo operato.
Infine ci sarebbe da attuare effettivamente l’autonomia abbattendo la sempre più enorme massa di leggi, leggine, circolari, disposizioni etc. che costringono il dirigente a stare a tavolino, invece che in mezzo ai docenti e soprattutto ai ragazzi.
Annunziata Brandoni, ex dirigente scolastica e pedagogista