Caro Serra, non so da dove cominciare.
Nemmeno De Amicis avrebbe osato tanto nel difendere la sacralità delle classi sociali. I ricchi non vanno in carcere perché sono più buoni ed educati… tipo Berlusconi, intendi?
Non saprei. Ho insegnato in un istituto professionale, tempo fa, e ricordo bene i ragazzi aggressivi – tipo trenta maschi di diciassette anni chiusi in un’aula nel seminterrato con le sbarre alle finestre e il prof di educazione fisica che a primavera spariva perché aveva il lido da sistemare per l’estate.
Ricordo anche i consigli di classe.
Ricordo una collega che mi disse: “Fai credere a questi ragazzi di valere chissà cosa, quando sai benissimo che nella vita non faranno nulla di buono, sono già segnati.”
Ricordo gli insegnanti che in quelle scuole si nascondo nelle pieghe dell’insofferenza di quei ragazzi, le usano per fare il meno possibile, perché “tanto sono già segnati”.
Ricordo anche le famiglie, che lo scooter e il telefonino sì, valevano sacrifici e rate, ma se gli parlavi di talento e istruzione si facevano il segno della croce e ti spruzzavano di acqua santa.
Anche per loro quei ragazzi, i loro figli, erano già segnati.
I fenomeni di violenza e bullismo, che nelle scuole fighette avvengono ma con dinamiche diverse, caro Serra, basate sui soldi e sull’esclusione del diverso, sono solo il segno di una generazione di adulti che vale zero sia come esempio che come stimolo.
I prigionieri dietro le sbarre invisibili – prigionieri di una generazione che non si fa da parte e non è capace di dialogare, che occupa ogni spazio con una visione della vita stantia che non ha nessuna attinenza con il mondo reale, che ingombra l’orizzonte e qualunque panorama arioso sul futuro – a volte sbroccano.
Sono da punire, e su questo io sono d’accordo, ma sono anche il simbolo del fallimento sia della famiglia che delle istituzioni.
Due entità che pullulano di adulti disillusi e opprimenti, peggio ancora quando esponenti di una “sinistra” che è più di destra della destra.
— Manuela Salvi, insegnante e scrittrice