Di quelli in cui sei costretta a correre più del solito, con un traffico rabbioso, sul filo dei minuti. Cinquanta chilometri ti separano da quella prima ora. Le sette e quaranta, di battistiana memoria, ti fanno un baffo: magari avessi preso un treno!
Invece no, sei alla guida, le mani scorrono sul volante intorpidite e ghiacciate, il parcheggio latita, i Suv invadono i marciapiedi e sembrano volersi catapultare nell’atrio, pavimentato all’uopo di cartoni antiscivolo, screziato qua e là di secchi rossi, atti a raccogliere l’acqua piovana.
Giusto a ribadire, se mai ce ne fosse necessità, che le nostre scuole non sono proprio regali magioni, ma vivono di emergenze, occhi attenti, solide (e spesso solitarie) volontà.
Il grigiore invernale è interrotto dal giallo acceso degli scuolabus, che depositano qua e là macchie di pivellini intirizziti nei loro piumini ocra, fluo, blu, arancio, verdi. Lasci la tua utilitaria al volo, tenti invano di sorbirti un caffè al distributore alias-macchinetta-rubaspiccioli e fai il tuo trionfale ingresso, cinque minuti prima dell’inizio delle lezioni, come da copione.
In quel momento sei travolta dall’orda degli al-Unni, in un turbinio allegro di voci, sciarpe, zaini, cartelline, sacche. Si siedono, si guardano complici e proferiscono un unanime, inquietante “Prof! Oggi sei bellissima!”.
Ripensi all’ammutinamento della sveglia, all’abbigliamento rimediato in un nanosecondo, alla pioggia; altro che trucco e parrucco, al massimo sei “tricomunita” di uno scopino umido.
E ti sovviene l’antifona.
“Ragazzi… cosa non si fa per evitare una verifica!”
E giù risate. Meglio del ginseng. Dell’infernale acqua colorata dell’infernale macchinetta ruba-spiccioli. Di Pavia confusa con Povia, dei verbi “che copulano”, di Ulisse “sciupafemmine” (ma in tal caso, come dar torto all’intrepido studentello?). Insomma del fior fiore passato e presente.
Ecco, in quell’istante ho capito. È arrivato, d’un tratto, il “tempo del riso”. Non un riso sguaiato, insensato, incontrollato ma canalizzato, funzionale a sorreggere e correggere “il clima” della classe.
Perché se, chiusi entro quattro mura, l’aria dovesse farsi asfittica non ci sarebbe nessun apprendimento che possa dirsi “significativo”.
Sembra scontato, eppure non ne ho avuto immediata percezione. Nell’arena “dall’obbligo” ci sono finita che ero poco più di una studentessa anch’io, ventitreenne, senza libretto delle istruzioni alcuno. Per farmi prendere sul serio ho cercato, non di rado, di essere cupa, torva, come se ciò mi conferisse automaticamente la tanto agognata “autorevolezza”.
Finché mi sono accorta che questi adolescenti arrivano in aula con il loro carico pesante, non solo quello stipato in voluminosissimi trolley. A volte trascinano fardelli interiori giganteschi per la loro età: disgregazione in tante forme, innumerevoli contrasti, complessi e fragilità.
Mai come oggi i ragazzi hanno bisogno di “leggerezza”, che non si configura come antitesi alle regole, alla fermezza; che non vuol dire dismettere il nostro habitus professionale, ma farne parte integrante, mirata a migliorare il nostro agire didattico, come ogni altra strategia possibile.
Del resto il buon Giacomo Leopardi nello Zibaldone asseriva: “terribile ed awful è la potenza del riso: chi ha il coraggio di ridere è padrone degli altri, come chi ha il coraggio di morire“.