Si è molto discusso, e ancora molto di discute, sull’opportunità di fare imparare a memoria a scuola. La nostra generazione viene da una tradizione didattica in cui questo era la base dell’apprendimento.
Si studiavano a memoria le poesie, i canti della grande guerra o della Resistenza, la nomenclatura geografica, le tabelline; poi, declinazioni e coniugazioni, i paradigmi dei verbi greci, i vocaboli delle diverse lingue.
Arrivati al liceo ti avvisavano che il tema di letteratura richiedeva citazioni dei testi e che non ti potevi avvalere dell’antologia durante la redazione: Quindi, o imparavi a memoria quel che dovevi citare, e non citavi e andavi incontro a un esito infausto.
A corredo di questo dispositivo vi erano gare dei verbi, tornei di tabelline, interi pomeriggi a voce alta: un vero e proprio sistema di apprendimento costruito sulla ripetizione, di cui erano parte integrante, come gli studi sull’oralità hanno dimostrato, per l’appunto l’agonistica e la mnemotecnica.
Negli scorsi decenni, il fatto che l’apprendimento mnemonico fosse uno dei principali ingredienti dell’istruzionismo (lezione frontale + memorizzazione + ripetizione), l’affermarsi delle prospettive costruttiviste e la crescente disponibilità di “memorie digitali” hanno prodotto una lenta liquidazione della memoria e della sua funzione in relazione all’apprendimento.
Perché imparare a memoria, se quei contenuti sono comunque disponibili?
Non è meglio liberare le nostre risorse mentali per compiti maggiormente complessi e livelli più alti di elaborazione cognitiva?
Così ha iniziato ad affermarsi una tendenza che ha portato al progressivo abbandono dell’imparare a memoria, guardato come un portato d’altri tempi che la naturale evoluzione della didattica avrebbe giustamente dovuto superare.
Oggi molti elementi che la ricerca ha messo a disposizione degli insegnanti sono in netta controtendenza rispetto a questa credenza.
Stanislas Dehaene, docente di neuroscienze cognitive, osserva che uno degli elementi che consentono di prevedere uno sviluppo adeguato delle competenze matematiche del bambino è legato proprio all’apprendimento mnemonico delle tabelline e di altri dispositivi (come semplici routine di soluzioni, i quadrati perfetti fino al 100, alcune radici quadrate, ecc…) che possono facilitarne il compito quando si troverà alle prese con problemi più complessi o concettualmente più complicati poiché potrà liberare, sulla base dell’acquisizione di questi automatismi, energie mentali per attendere a tali compiti senza impegnarle in questi compiti di routine.
In buona sostanza, Dehaene osserva che ha molte più possibilità di diventare bravo con la matematica un bambino che abbia imparato le tabelline a memoria rispetto a uno precocemente abituato a far conto sulla calcolatrice.
James Paul Gee (2007), professore di Literacy Studies alla Arizona State University, studiando i videogiochi come campi semiotici (cioè come fenomeni linguistici in tutto e per tutto simili ad altri mondi di significato con cui abbiamo a che fare nella nostra vita, dalla letteratura, a un programma televisivo, a una disciplina scolastica), evidenzia come in questo caso il compito della ripetizione sia affrontato di buon grado dal giocatore e da esso dipenda il buon apprendimento di come il videogioco funzioni.
In scuola, se l’esercizio di matematica è “troppo difficile”, dopo aver provato a risolverlo in modo svogliato, è molto raro che si insista: Il provare e riprovare, la ripetizione, sono vissuti come una fatica, come un compito poco gratificante. Al contrario quando si videogioca, ci si accanisce sullo stesso livello di gioco per ore, se serve, fino a trovare una via d’uscita o almeno fino a far diventare così sicuro e fluido un certo gesto da renderlo funzionale a superare un ostacolo o a sconfiggere un nemico. Come nel caso delle tabelline, anche se in modo più piacevole, pare che l’apprendimento passi inevitabilmente dal ripetere.
Il filosofo Michel Serres (2012) aggiunge un ulteriore elemento di valutazione. Nella sua analisi dello sviluppo tecnologico, uno degli elementi di riflessione è proprio rappresentato dal rapporto esistente tra la tecnologia e la memoria. Recuperando l’intuizione platonica del Fedro, in cui il dio Teuth prova a vendere al re Thamus l’invenzione della scrittura presentandola come “farmaco della memoria”, Serres osserva come di fatto nella storia della tecnologia l’evoluzione sia andata sempre proprio nella direzione di una parziale surrogazione della memoria da parte degli artefatti. Vale per il libro, vale ancor più per le “memorie digitali”.
Serres riflette su questo fatto e ne rileva la profonda ambivalenza.
Infatti, da una parte, poter contare sul supporto della tecnologia consente di liberare energia psichica per svolgere funzioni più alte: se non assorbiamo buona parte delle nostre potenzialità di pensiero nell’attività da ricordare, le stesse energie che immobilizzeremmo in questo compito potranno essere liberate a servizio della creatività, dell’immaginazione, del problem solving.
D’altra parte, però, rileva il filosofo francese, se tutto il peso del ricordo viene esternalizzato nelle memorie digitali, vi è il forte rischio che nella nostra testa non rimanga nulla, neppure quel che serve a “ricordarsi” dove abbiamo allocato una memoria e come richiamarla.
Proprio in questa prospettiva, Serres ritiene che il san Dionigi decollato del pittore francese Léon Bonnat rappresenti un’efficace metafora del ruolo della tecnologia in relazione alla memoria e di come, in fondo, non ci si possa permettere di non ricordare nulla, di delegare completamente la gestione delle nostre memorie agli artefatti esterni: “Quale santità permise a Dionigi decollato di riprendere la sua testa da terra? L’oggetto, a fatica riconosciuto come tale dall’assemblea atterrita, all’improvviso si eleva al di sopra degli sguardi assassini e affascinati: sì, la testa della vittima tenuta dalle sue mani, sollevata al di sopra del cadavere acefalo, resta ancora un soggetto. Ma quell’altra testa, assente, la vede senza occhi, l’annusa senza odorato, la sente senza udito battere i denti e singhiozzare di sofferenza e senza cervello la giudica, senza bocca la proclama? Cieca, la testa fantasma guarda la testa reale, separata dopo la decollazione. È, qui, nudo e vuoto, senza facoltà, che Bonnat dipinse in un’aureola abbagliante di trasparenza, di fronte al cognitivo oggettivato? A che cosa o a chi paragonare la console, il computer e la sua immensa memoria, il suo schermo, la sua potente rapidità di calcolo, la sua fulminea classificazione dei dati… a quale testa piena e ben fatta, massimamente densa e genialmente fabbricata? A quale luce trasparente paragonare la nostra stessa testa vuota di fronte alle sue facoltà materializzate sotto vetro e plastica, in silicio e fibre ottiche? Divenuti tutti dei san Dionigi, ormai ci impossessiamo ogni giorno, per servircene, di quella testa piena e ben fatta che giace davanti a noi, portatori di una testa vuota e inventiva sul collo“.