Prima di poter dichiarare ufficialmente concluso l’esame di Stato, dopo gli scritti, c’è un ultimo ostacolo da dover affrontare: il colloquio orale, ci si trova faccia a faccia con i commissari esterni, si espone la tesina/percorso e si è chiamati a rispondere oralmente a delle domande per ciascuna materia.
Come quasi tutti gli anni da commissario d’esame, pur insegnando una disciplina diversa, quel che più mi appassiona è l’esame di Storia. Mi incuriosisce ascoltare i “nativi digitali” che sanno tutto (o quasi) del Congresso di Vienna; di De Pretis, Crispi e Giolitti; di Cavour e dello “sbarco” di Garibaldi; della “fascistizzazione del paese”, per non parlare della “Prima e Seconda guerra mondiale”.
Già nel 1996 il ministro della Pubblica Istruzione Luigi Berlinguer stabilì che nell’ultimo anno della scuola secondaria superiore si insegnasse solo la storia del Novecento, e non anche quella dell’Ottocento. Berlinguer motivava questa innovazione con «l’esigenza pedagogico-culturale di dedicare un più ampio spazio alla trattazione di avvenimenti recenti di notevole rilievo storico politico», in effetti come sostiene Antonio Brusa in un intervento sul nuovo curricolo di storia: “la tendenza comune ai paesi maggiori è di evitare la ripetizione ciclica dei contenuti”.
Gli unici paesi che seguono il modello ciclico come l’Italia sono la Grecia e l’Albania: non sono esempi molto luminosi.
Nelle scuole superiori dei paesi europei ci sono due tendenze: una, assolutamente maggioritaria (Germania, Gran Bretagna, Belgio, Spagna, Svizzera e paesi dell’Europa settentrionale) che prevede temi d’approfondimento, con l’intento di coinvolgere studenti ormai maturi su temi e problemi di rilievo. L’altra tendenza, o se si vuole l’eccezione, è la Francia, che ripete il programma cronologico lineare, ma lo fa a partire dal ‘700: dal ‘700 al 1914 nel primo anno, dal 1914 al 1945 nel secondo, dal 1945 a oggi nell’ultimo anno.
Come racconta Luigi Cajani ne “I recenti programmi di storia per la scuola italiana”, L’insegnamento della storia contemporanea è stato da sempre oggetto di polemiche politiche tra “destra” e “sinistra”, addirittura Indro Montanelli diffidava «dell’equilibrio e dell’imparzialità» dei testi scolastici, al contrario dello storico siciliano Francesco Renda, il quale sosteneva che: «questa materia è ricerca della verità, il problema sta nella falsificazione dei fatti e non nel modo in cui ciascuno inevitabilmente legge un avvenimento in base alle proprie convinzioni».
Ma ci fu un altro aspetto dello studio della storia contemporanea che accese un furioso dibattito, e cioè quando l’allora Ministro De Mauro propose due importanti novità sul piano dei contenuti: la continuità del curricolo di Storia fino all’obbligo scolastico e la sostituzione della tradizionale impostazione eurocentrica con una mondiale, come già avveniva in molti altri paesi.
A questa proposta si opposero diversi storici, i quali sottoscrissero un documento: “…Non si deve perciò proporre che si studi il mondo intero, in modo enciclopedico e in pillole […] ma che si studi in modo selettivo, partendo dalla nuova realtà che circonda il bambino..”. Insomma se il tuo compagno di banco è un cinese, allora è il caso di studiarla la storia di quel paese, altrimenti a che serve?
Ma nel fallimento di questo lungimirante tentativo di introdurre una visione mondiale della storia nella scuola italiana, come affermò lo storico Giuseppe Ricalcati, incise il fatto che “che mancava una vera tradizione di World History nella ricerca italiana”.
In ogni caso il decreto ebbe breve vita, infatti con l’avvento dei governi di centro destra, si tornò al curricolo tradizionale con lo studio di una storia contemporanea eurocentrica e che iniziava dall’800 con il Congresso di Vienna, la decisione questa volta non suscitò alcuna polemica, segno che andava incontro alla opinione corrente.
In quegli anni intervennero con poco successo diversi intellettuali, tra questi Vittorio Foa: «Gli studenti devono studiare questo secolo per capire il rapporto fra il ricordo del passato e il futuro della loro vita», ma gli anni passano e questa Storia di contemporaneo ha ormai ben poco, è come se i docenti di una generazione – quella tra i 50 e i 60 anni – si fossero fermati ai loro studi universitari, d’altronde non penso che abbiano colpe particolari, nelle stesse linee guida ( gli ex programmi ministeriali n.d.r. ) introdotte dalla Gelmini si parte dalla “Restaurazione” e si finisce con “il tramonto del colonialismo e la Comunità europea”.
Accade oggi perciò che i cosiddetti “millennials” , certo non per loro responsabilità, non sanno nulla di: “Muro di Berlino”, nascita del World Wide Web, ”11 settembre”, “Guerra in Iraq e Afghanistan”, il primo Presidente degli Stati Uniti di colore, il fenomeno “migranti”; e per non parlare dei fatti di storia italiana recente: le “stragi impunite”, il terrorismo, il “sequestro Moro”, “Ustica”, il “1992” con le stragi di Mafia e l’inizio della “Seconda Repubblica”.
Una volta un mio collega di Lettere mi confessò le difficoltà che trovava a far capire ai suoi alunni la “convenzione” del passaggio da “moderna” a “contemporanea” citandomi una “battuta” di un suo alunno: “Prof! Ma se l’800 è storia contemporanea quella di oggi che storia è?“
Tullio De Mauro nominò una commissione di 250 saggi per rivedere i contenuti e le discipline di insegnamento, è da qui che sarebbe dovuta partire la riforma della “buona scuola”, soprattutto per l’immissione in ruolo di “forze nuove”.
Quali materie? Quali contenuti? Come aggiornare i docenti sulle innovazioni didattiche? Prima della valutazione viene la formazione, non viceversa. Ma questa è un’altra storia (con la “s” minuscola).
Paolo Accardi, docente in discipline giuridiche ed economiche [email protected]