Alle medie, la mia classe passava la maggior parte delle ore con due insegnanti: quella di italiano, che faceva anche storia, epica e forse qualche altra materia, e quella di matematica – forse anche scienze, non ricordo.
La professoressa di italiano era una signora molto borghese, molto preparata, molto curata d’aspetto e con un linguaggio ricercato.
La professoressa di matematica era l’insegnante di matematica dell’immaginario collettivo: capelli corti, occhialetti, nessun rapporto umano che andasse al di là di un’interrogazione o di un rimprovero.
La professoressa di italiano rubava tempo alle lezioni per parlare con gli studenti, per raccontare dei viaggi che faceva con suo marito, di cosa aveva fatto nel fine settimana e per sentire che cosa ne pensavamo di questo o di quello. Quando riportava i temi, le piaceva leggerne qualcuno alla classe. Era una donna schietta e sincera con i suoi alunni. Un’insegnante moderna, si potrebbe dire, nonostante chi scrive non arrivi a 35 anni e lei credo sia già morta di vecchiaia.
La professoressa di matematica distribuiva voti con la calcolatrice. Mezzo punto per ogni esercizio fatto bene, mezzo punto in meno per ogni esercizio fatto male. Il più delle volte, era una strage. Non raccontava niente che esulasse da formule e teoremi, non le interessava la nostra opinione, se non alle interrogazioni. Una professoressa all’antica, e credo anche lei sia morta di vecchiaia.
La professoressa di italiano coccolava i suoi alunni più bravi e non nascondeva le sue simpatie. Una volta lesse in classe il tema del mio compagno di banco, un ripetente con i baffi, un bullo spietato, alto quanto mio padre. La classe si sbellicò dalle risate. Il mio compagno di banco pianse dalla vergogna, davanti a tutti. La professoressa gli consiglio di arrivare presto a sedici anni e andare a lavorare nella ditta di pulizie del padre.
La professoressa di matematica non guardava in faccia nessuno, ma incoraggiava tutti i suoi alunni a studiare con la minaccia di un futuro di stenti, di privazioni e delusioni. Tanto bastava a convincere anche i meno furbi.
Dall’insegnante di italiano ho imparato a scrivere. Oggi la scrittura è il mio mestiere. Ho imparato a relazionarmi con le persone, a non avere pregiudizi e a non accettare le ingiustizie. Il suo esempio, in ogni caso, è stato un contributo prezioso per la mia formazione.
Dall’insegnante di matematica ho imparato le stesse cose, probabilmente: non a scrivere e neppure a fare i conti, ma mi ha dato molto a livello umano.
Anche un pessimo insegnate, a volte, fa egregiamente il suo lavoro, in modo involontario.
Non tutti gli insegnanti infatti sono come brillanti, originali, fenomenali come Robin Williams alias John Keating in L’attimo fuggente. I professori così, nella realtà, forse neppure esistono.
Tutti i professori ci lasciano qualcosa che va oltre la loro materia. Tutti o quasi rimangono nella memoria. La mia professoressa di italiano anche nella memoria collettiva, grazie alla scritta oscena del mio compagno di banco che per anni campeggiò gigantesca sul muro del palazzo di fronte alla scuola.
Lorenzo Chiodi, giornalista